CROCIERA ARABIA SAUDITA 14/22 GENNAIO 2022


25/02/2022

Descrizione

Un viaggio in Arabia Saudita: perché?

Negli anni scorsi ho viaggiato molto, ho visitato lo Yemen, l’Oman, gli Emirati Arabi, la Giordania, tutti Paesi che confinano con il regno saudita, ma i confini del regno erano chiusi: si poteva andare per lavoro ( il numero degli immigrati è molto alto), bisognava avere in loco uno sponsor che garantisse…poi nel 2019 la svolta, l’apertura al turismo, dovuta forse al fatto che i sovrani si sono resi conto che il petrolio e il gas naturale sono sì una grande ricchezza, ma non  inesauribile. La diffusione della pandemia ha raffreddato gli entusiasmi, i viaggi sono diminuiti e l’Arabia Saudita ha dovuto aspettare l’arrivo dei turisti, favorito, da qualche mese, dalle crociere organizzate dalla MSC. In autunno, i clienti sono stati quasi sempre ricchi sauditi, di religione islamica, pertanto sulla nave è stato bandito l’alcool, la zona termale per alcune ore del giorno è stata riservata unicamente alle donne, la cambusa è rimasta priva di carne suina e dei nostri pregiati prosciutti, le ballerine hanno dovuto coprire gambe e scollature con opportuni strati di tessuti, la musica nella reception, dove è stato allestito una specie di salotto beduino con tappeti e datteri, ha sonorità arabe. A questo punto, ho deciso di intraprendere questo viaggio alla scoperta di un mondo non ancora troppo globalizzato. Sulla nave gli arabi presenti sono forse duecento, non comunicano con noi neanche con uno sguardo, le donne ostentano borse firmate e mani curatissime. Qualche coppia viaggia con i bambini; il padre è abbastanza premuroso e protettivo; al buffet è lui che si alza per portare alla moglie il vassoio con la colazione; lei mangia a capo chino, sollevando il velo davanti alla bocca, attenta a non scoprire nemmeno un dente. Chissà se invidia un po’ la nostra libertà di vestirci come ci piace; chissà se sa che molte di noi lavorano fuori casa, guidano l’automobile, la moto, il camper…Da qualche tempo anche loro possono guidare – meglio se con un uomo accanto; e se usano la carta di credito è il maschio-padrone che controlla le spese!
Dunque, ho affrontato con molto interesse e una certa curiosità la crociera alla scoperta del più grande stato arabo, di un regno misterioso e discusso, dove non esistono Parlamento e Costituzione, in cui si dice che i diritti umani non sono rispettati, che per le donne che aspirano all’indipendenza la vita è complicata, che il vecchio re assoluto Salman ha ceduto il potere al nipote Mohammad  in Salman Al Sa’ud che ricopre numerosi incarichi ed è piuttosto “chiacchierato” . Ma veniamo al viaggio: da Malpensa con un comodo volo sono atterrata a Jeddah, la seconda città del regno, il porto più importante per movimento commerciale. Arrivare fino al porto è stato un susseguirsi di visti, impronte digitali, app da scaricare (obbligatoria), netta divisione fra uomini e donne. Nel pomeriggio, un bell’architetto, elegante nella sua tunica di un bianco abbagliante, ha accompagnato il piccolo gruppo alla scoperta della città vecchia. Parla un inglese molto corretto, cita spessissimo il re e la famiglia reale che vogliono far progredire il Paese e che generosamente favoriscono il restauro delle tante case che sembrano sempre un po’ inclinate, quasi pronte a cadere. Hanno imposte di legno inciso e intagliato, ampie, traforate perché passi l’aria e dall’interno si possa vedere senza essere visti. Sono costruite in pietra corallina con inserti di assi di legno. Non vedo bar e ristoranti, solo botteghe di tessuti o saponi o spezie; le donne sono quasi tutte completamente velate, si fermano in gruppo a parlottare fra loro, ci guardano con curiosità. Tutte abbiamo spalle e ginocchia coperte. La guida ci invita anche a entrare in due case private, dove ci accolgono uomini fascinosi che ci offrono datteri e acqua, seduti su panche alte, coperte da stuoie e tappeti.
Siamo entrati in questa parte della città, di fronte al porto, attraverso un ampio varco fra le mura antiche, dopo aver percorso in pullman la corniche, una specie di lungomare la cui maggiore attrazione, secondo la guida, è la bandiera più grande del mondo. Il fascino delle vecchie case mi colpisce, ci sono angoli in cui vengono esposte opere d’arte, un numero impressionante di gatti si rincorre tra i nostri piedi. Sulla nave siamo poco numerosi, ci viene misurata la temperatura davanti al ristorante, al teatro, all’uscita; siamo invitati a disinfettare o lavare le mani; tutti portiamo la mascherina, che togliamo solo al momento di mangiare. I tavoli si usano in maniera alternata, così come le poltrone dei tanti bar e quelle del teatro. La nave è bellissima, di nome e di fatto. Si chiama Bellissima: gli arredi, i pavimenti, le pareti virano verso il grigio, il blu, l’amaranto. Il personale è semplicemente perfetto. Ho occasione di parlare con il Guest Relations Manager Alfredo Martino: mi racconta i problemi causati dalla pandemia e tutti gli sforzi fatti perché la crociera rimanga comunque, per i passeggeri, un’oasi di pace, di relax, di divertimento, in sicurezza e nel rispetto delle regole anti-covid. Io lo ringrazio della disponibilità e della cortesia, suggerisco però che la Compagnia favorisca l’uso di Internet rendendolo meno costoso. Chi come giornalista deve mantenere il collegamento con il mondo esterno si aspetta un po’ di attenzione!
E siamo solo al primo giorno!!!

King Abdullah, città industriale definita ufficialmente Economic City, è stato solo un porto dove abbiamo attraccato per partire alla volta di Madinah, la seconda città santa dell’Islam al mondo, dopo la Mecca. Il viaggio in pullman è stato molto lungo (e anche un po’ noioso). Abbiamo percorso chilometri e chilometri di deserto ora sabbioso, ora roccioso, senza poter mai scendere, neanche per problemi “idraulici”. Per fortuna il bus era dotato di wc! Le accompagnatrici locali, giovani e silenziose, hanno distribuito a tutte noi donne l’abaya e il velo per la testa, tutto nero, benché, seguendo le indicazioni della MSC, avessimo gambe e braccia coperte. E benché alla domanda sull’obbligo di indossare l’abito lungo nero, la guida abbia risposto:<< Nessun obbligo. Anche le nostre donne possono scegliere qualsiasi colore>>. Peccato che tutte le donne che incontriamo siano in nero.  Dunque, un gruppo di donne in nero è sceso sperando che accanto alla prima Moschea ci fossero delle toilettes. C’erano, ma chiuse. Chiusa anche la Moschea, per noi non musulmani. Abbiamo ascoltato la guida locale (tradotta dall’inglese dal nostro accompagnatore, il bravissimo Andrea Vezzoli) raccontare con grande enfasi  la storia della battaglia del monte Ohud, dove Maometto e i suoi ebbero la meglio sulle truppe della Mecca.
Altri chilometri, altri racconti un po’ enfatici e fantasiosi della guida, e finalmente arriviamo a Madinah, una città grande, piuttosto anonima, strade piazze alberghi…fin quando non ci si avvicina alla grande Moschea Al Masjid an Nabawi: preceduta da strade affollate, su cui si affacciano imponenti alberghi che ospitano le folle di pellegrini, ci sorprende con i suoi dieci minareti, con una lunga recinzione che la circonda e si apre in grandi cancelli – che noi non possiamo varcare – sorvegliati da uomini in divisa. La guida, dopo averne decantato la maestosità e l’ampiezza (può contenere fino a 1.000.000 di persone e comprende biblioteche, ambienti comuni, aule  per convegni e sale per preghiere), ci indica la cupola verde posta a nord est: indica il luogo dove è sepolto Maometto. La Moschea è aperta ventiquattro ore su ventiquattro, circondata anche da spazi verdi, uno dei quali è il Nobile Giardino. Se si prega in questo luogo, le preghiere saranno esaudite. Qualcuno di noi avrebbe qualche preghiera da fare… La guida – che in bus ci ha fatto sentire anche un canto dedicato a Maometto, coinvolgendo anche una delle accompagnatrici, – ci promette qualche minuto per lo shopping e garantisce che sarà tutto “made in Saudi”, ma dimentica che nell’ora della preghiera tutte le serrande vengono abbassate. Niente acquisti, i poliziotti ci guardano male e ci invitano ad allontanarci, dopo aver controllato abbastanza discretamente che non fotografassimo le donne. Ci attende un buon pranzo a buffet (riso, verdure varie, pollo e agnello, gamberi, dolci colorati e mielosi) in un hotel che ci accoglie in spazi fastosi. Se qualcuno vuole andarci, si chiama Al Muna Kareem ed è a tre passi dall’ingresso della Moschea. Il personale è gentile, il caffè saudita è pessimo. Dopo pranzo, visita al Museo privato Dar Al Madinah che espone oggetti datati di uso comune, pezzi di arredo, argenti e qualche plastico della Moschea, dei colli circostanti, dei luoghi delle battaglie. Sembra un Museo Didattico, il personale è numeroso e gentile, ci forniscono soprascarpe di plastica azzurra e prima che andiamo via ci offrono i loro ottimi datteri.    Ultima tappa è la Moschea di Quba – la più antica del mondo. La guida ci dice che fu Maometto a posare la prima pietra durante il suo primo viaggio dalla Mecca a Madinah. Mi sembra un luogo tranquillo per famiglie: i bambini giocano e si rincorrono nel piazzale antistante, il piccolo complesso di negozietti offre qualcosa da mangiare, creme  e spezie. Ci sono anche capi di abbigliamento per uomo e donna. Per noi, improponibili. Non si accetta moneta straniera, ma si può pagare con carta di credito. Compro una crema per il corpo allo zafferano. Diventerò tutta gialla? O anche un po’ rossa come gli stimmi?
Quasi quattro ore di viaggio, dormiamo un po’ approfittando del silenzio della guida, torniamo al porto e la nostra nave ci accoglie calorosamente: controlli della temperatura e dei passaporti e poi, finalmente, in cabina per una doccia ristoratrice. 11 ore di escursione, ma ne è valsa la pena.

Che cosa ricorderò di questo viaggio nel cuore dell’islam? Forse quel “senso del dovere” che spinge tanti ad andare a pregare davanti ai cancelli, a inginocchiarsi sui tappeti che portano da casa, arrotolati sotto il braccio, o più probabilmente le tante bambine che sono ancora libere di vestire con colori vivaci, di scalciare se i papà le rincorrono e le afferrano, di gridare se non vogliono smettere di giocare. Una davanti a me guarda suo padre con aria di sfida e pesta i piedi a terra. Avrei voluto dirle: Continua così! Non diventare uno strumento nelle mani di un uomo, non coprirti perché solo uno possa vederti, sorridi alla vita, conquista i tuoi spazi e la tua autonomia.
E se invece fosse felice così, come sua madre? Ma chi può dire se sua madre è felice?

La nave di notte naviga, al risveglio ci troviamo in un nuovo porto, quello di Yanbu Albahar, una città di 400.000 abitanti, dove visse, nel primo ventennio del secolo scorso, Thomas Edward Lawrence, l’ufficiale inglese noto a tutti, che partecipò alla Grande Rivolta Araba contro la dominazione ottomana. In realtà di Lawrence d’Arabia si dicono tante cose, si sussurra che sia stato un agente  dei servizi segreti di Sua Maestà britannica; certamente fu un archeologo appassionato e uno scrittore affascinante, oltre che un abile stratega della guerriglia che organizzò il sabotaggio della linea ferroviaria che da Damasco arrivava a Madinah. La guida che ci accompagna lo cita spesso, ricorda anche la delusione di Lawrence che aveva combattuto contro la Turchia per la libertà dei Paesi arabi e, finita la rivolta, fu costretto ad assistere alla spartizione dei territori da parte delle potenze coloniali europee.

Yanbu Albahar, città di mare poco distante da Yanbu An Pakhl, che è nell’interno, è diventata, a partire dagli anni ’70 del ‘900, prevalentemente una città industriale, in cui il lungomare separa le case dalle numerose raffinerie che dal mare lanciano fiamme, attraverso gli intrecci di ferro che fanno pensare a tante torri Eiffel, o – con più fantasia – a lunghi colli di giraffe. Il lungomare si amplia, diventa un grande parco, un vero polmone verde, ricco di fontane e fiori, ponticelli romantici, laghetti e persino piccole cascate, che la guida ci mostra con entusiasmo, ricordandoci più volte che nell’antichità proprio qui si trovavano 300 sorgenti naturali.  Antonella, dell’Ufficio Escursioni, traduce per noi, con competenza e grande disponibilità.  La parte vecchia conserva tracce del passato che i sovrani vogliono restaurare a beneficio dei turisti; oggi è una città-cantiere, si affaccia sul porto, dove una volta si trovavano i banchetti che vendevano il cibo per i pescatori. La guida ci dice che nel passato questo era il luogo privilegiato di incontri fra viaggiatori e commercianti di tutto il mondo.

Dal Souq Al-Lail  si diffondono profumi molto intensi, in ogni piccola bottega ci sono donne che vendono datteri, creme e saponi, che fanno tatuaggi (lavabili) con l’henné, che ci guardano con simpatia. Sono immigrate, dalla pelle nera e dai capelli crespi. Le ricche saudite non frequentano il Souq, preferiscono barocchi centri commerciali dove trovano abiti, scarpe, borse e cosmetici firmatissimi. Dal Souq al waterfront il passo è breve: tutte le case sono in ristrutturazione, fra qualche anno saranno piccole graziose ville a schiera senza identità. Le aiuole sono numerose e curatissime, archi di ferro sono ricoperti di foglie verdi e fiori…ma che delusione! aiuole, fiori e foglie sono di plastica, ingannano da lontano gli occhi, ma da vicino si rivelano riproduzioni grossolane made in China. Un po’ deludente questa Yanbu, detta “città dalle due anime” perché secondo i manager del turismo comprende la parte antica e quella moderna; purtroppo non abbiamo il tempo di fare un’escursione per raggiungere la barriera corallina. La guida (e Antonella continua a tradurre) ci dice che i campi di corallo sono così estesi da far pensare a città sottomarine. Ancora una volta, penso di aver visto una realtà in via di cambiamento. Chi verrà qui fra qualche anno, potrà pensare di trovarsi alle Seychelles o a Mauritius; l’idea di preservare il patrimonio architettonico è piuttosto impopolare. Alle costruzioni originali si sostituiscono le villette a schiera… Ancora una volta penso che gli errori degli altri diventano esempi da imitare. La storia non è – e non è stata – magistra vitae.
Tornati a Jeddah in nottata, abbastanza presto sbarchiamo per andare all’aeroporto e imbarcarci per Al Ula. L’aeroporto di Jeddah è grande, ben organizzato, ma non offre alcun collegamento wi fi. Arrivati ad Al Ula, nel piccolo aeroporto il collegamento wi fi free è immediato. Finalmente, mentre usciamo in fila indiana, scrupolosamente divisi (maschi da una parte, femmine dall’altra), whats app mi mette in contatto con il mio mondo!

Ho letto sul programma delle escursioni di cosa si tratta, sono molto curiosa, si parla di Hegra, una “Petra” saudita, forse descritta da Lawrence d’Arabia che lì intorno, nel cuore del deserto, ha combattuto contro i turchi. La località è anche conosciuta come Mada’in Salih, cioè la città del profeta Salih, che è citato nel Corano; è il sito archeologico dichiarato patrimonio dell’umanità dall’Unesco nel 2008, il primo dell’Arabia. Ci arriviamo in pullman, percorrendo una strada disegnata nel deserto rosso. Il cielo è di un azzurro abbagliante, ma quando scendiamo ci rendiamo conto che l’aria è abbastanza fresca. D’altra parte, in gennaio è inverno anche in Arabia! Camminiamo su terreno sabbioso, sconnesso; le scarpe si riempiono di sabbia…poi, davanti ai nostri occhi, si stagliano dei monoliti rocciosi, imponenti, nei quali – come a Petra – sono scavate le tombe. Tante, ancora in attesa di essere sistemate perché i turisti possano entrarvi, affascinanti, ieratiche, distanti l’una dall’altra (dunque, non una città come Petra, ma un’area di circa 14 km che ospita più di 100 tombe, alcune singole, altre collettive). La guida, poco loquace, spiega – e il bravissimo Andrea traduce – che questo era un luogo di confino per i miscredenti, forse un luogo maledetto dal dio. E’ probabile che poco lontano si trovi la città dei vivi, si dice che fosse la città più importante dei Nabatei dopo Petra, ma ancora la sabbia del deserto copre tutto. Sicuramente Hegra era abitata dai Nabatei, forse dal 100 a.C. al 100 d.C…non ci vengono forniti dati più precisi, come se gli studi e le ricerche, ancora in corso, non avessero rivelato di più. Si racconta che Hegra fosse il grande mercato dei beduini nel I e II secolo d.C. e che il dominio romano sia finito al tempo di Traiano. La tomba più imponente è quella di Liyan, figlio di Kuza, o di Alfareed, un ricco mercante. Questo sito affascina perché è ancora misterioso, perché siamo praticamente gli unici esseri viventi presenti, perché i colori sono forti, perché il vento muove la sabbia e mi fa pensare che potrebbe, all’improvviso, far scomparire tutto davanti ai nostri occhi, oppure…lo stesso vento potrebbe smuovere altra sabbia e rivelare tesori nascosti. Ci aggiriamo a piedi, mi sembra di essere in una città di fantasmi, i colori sono caldi, il vento va aumentando di intensità. Ogni tanto, tra sabbie rosse e massi, appare qualche arbusto; sullo sfondo, le grandi tombe, porte aperte nella roccia, scavate dall’alto verso il basso.
Andiamo a mangiare a qualche km di distanza, sotto una tenda è preparato per noi un buffet; all’esterno una griglia ospita carni varie, un’altra pesce e gamberi.
Il personale però è abbastanza scortese, la carne e i gamberi grigliati non sono sufficienti per tutti. E sotto la tenda soffia un vento fastidioso e (troppo) fresco.
Andiamo via volentieri, di nuovo in pullman a solcare il deserto, fino alla Roccia dell’elefante, incredibile monolite che si staglia sullo sfondo del deserto, sotto l’azzurro intenso del cielo. Qui per i turisti ci sono panche accoglienti, con cuscini, per riposare e farsi fotografare…l’elefante gigante alle spalle domina la scena. Mi dicono che le panche sono una novità, fino a qualche tempo fa l’elefante era solo, chi voleva una foto poteva arrivare fino a toccarne zampe o proboscide. Intorno, automobili e famigliole, bambini issati sui cammelli. Gli indigeni si meravigliano se li guardiamo. Si chiedono:<<Cos’hanno da guardare? Forse in Italia non ci sono i cammelli?>>

Prima di tornare all’aeroporto, andiamo a visitare Al Ula, la cosiddetta Old Town: qui sì che i sauditi aspettano i turisti! Attraverso vicoletti suggestivi, ripercorriamo le stradine linde dove una volta si incontravano pellegrini e coloni. Le costruzioni sono semplicemente perfette, tutte in mattoni, sembrano appena costruite… ospitano negozietti di souvenir e di datteri, incantano i turisti che hanno l’impressione non di visitare un vecchio centro abitato, ma un moderno set cinematografico. Una cittadella fortificata in via di restauro (o di ricostruzione totale), forse del X secolo, sovrasta l’”old” town. La guida ci racconta che una volta Al Ula era circondata da palmeti. La ricca offerta di datteri ne è testimonianza!
Un po’ delusa, passo dal pullman all’aeroporto, dall’aereo alla nave. Jeddah dall’alto appare in tutta la sua estensione, ricca di luci, distesa accanto al mare.

 

il ritorno a casa
Per una settimana sono entrata in un mondo completamente diverso dal mio, cosa ho portato con me? Sicuramente l’immagine delle donne velate, coperte di nero all’inverosimile, quasi a volersi confondere con tutte le altre. In realtà, a parte qualche centimetro di differenza in altezza, sembrano davvero tutte uguali, non si capisce se siano giovani o vecchie, belle o brutte, magre o robuste. Chissà se hanno conosciuto il mondo occidentale, se hanno indossato i jeans, se sono andate al mare in costume da bagno piuttosto che vestite…e se tutto questo lo hanno conosciuto, magari quando sono partite per studiare in prestigiose Università, in Inghilterra, o in Australia, o negli Stati Uniti, come hanno potuto poi riadattarsi a queste abitudini, essere controllate dagli uomini di casa, essere costrette a occultare la loro femminilità? Chi non si è mai allontanata dall’Arabia Saudita, forse non sa, non immagina, dal momento che nel regno governato con pugno di ferro non si vedono canali tv stranieri e non arrivano giornali dal mondo non islamico. Le bambine possono vestire da bambine, indossare abiti dai colori vivaci; possono giocare anche con i bambini, possono ribellarsi ai papà quando le rincorrono per prenderle in braccio…ma tutto finisce quando diventano donne. Devono dimenticare. Negare in pubblico la loro immagine, la loro identità. Mi sembra una pretesa mostruosa. Insieme a queste donne e future donne che vedono il mondo attraverso una fessura, ho negli occhi l’immagine dei nuovi schiavi, uomini e donne che arrivano dai Paesi poveri e trovano un lavoro al servizio dei ricchi, costretti e costrette a rinunziare alla loro religione, alle tradizioni dei loro Paesi, a educare i  figli secondo i propri costumi. Li ho visti nei piccolissimi negozi di Jeddah, dove vendono spezie e saponi; le ho viste nel souk di Yanbu, rintanate nel fondo di botteghe che sembrano (per piacere ai turisti) grotte, con gli occhi fiammeggianti e capigliature voluminose. Altro ricordo forte è il sovrapporsi di una civiltà fatta di consumismo e di turismo su un’altra antica e autentica come sono le case di pietra corallina di Jeddah, con porte e finestre colorate, con trafori che sembrano ricami nel legno, sono i salotti con le panche alte e tanti tappeti, sono  le moschee vietate a noi infedeli, sono i cammelli su cui vengono issati i bambini per fare un giretto – come da noi per le foto sugli elefanti dello zoo – e le famigliole accampate sulla sabbia rossa del deserto, sono i fitti palmeti che appaiono come miracoli, improvvise oasi di ombra, speranza di acqua per i viaggiatori di un tempo… L’immagine peggiore sono i terribili fiori di plastica, le aiuole di Yanbu che da lontano sembrano perfette, insieme ai quartieri di Jeddah ormai disabitati, in attesa di demolizione per far posto ai grattacieli; anche l’old town di Al Ula ricostruita secondo il progetto di qualche archistar mi ha lasciato l’amaro in bocca, come il controllo poliziesco su chi  guardava da lontano la grande Moschea di Madinah. Il viaggio è stato reso in qualche modo “facile” perché invece di un percorso via terra, con zaini in spalla, abbiamo scelto una crociera, che libera dall’impegno di viaggiare con i bagagli al seguito e di cambiare letto ogni notte: nave bella, (non per niente si chiama Bellissima), cabine perfettamente pulite, personale sempre gentile, cibo di ottima qualità. Ma in realtà è stato molto di più di una normale crociera: l’essere in pochi ci ha permesso di parlare amichevolmente con i ragazzi dell’Ufficio Escursioni, con gli addetti al front-office, con il responsabile delle relazioni esterne (Alfredo Martino, gentilissimo e presente!), con i camerieri di bar e ristoranti, con il premuroso maitre Cesare Astarita, che si è preso cura di me e dei miei problemi alimentari. Nell’ampia reception era possibile, in certi orari, ascoltare musiche arabe; nella spa, dalle 11 in poi, gli uomini erano esclusi perché piscine, saune e quant’altro diventavano il regno delle donne, ma né la musica salmodiante, né l’orario di accesso limitato hanno creato disturbo. Non abbiamo mai fatto una fila, l’animazione c’era, ma discreta, non invadente rumorosa caciarona come spesso capita; gli spettacoli a teatro ci hanno fatto passare delle serate piacevoli…non dimentico poi che all’uscita dal teatro il soffitto della galleria si illuminava e scorrevano sulle nostre teste immagini fantastiche. Mi dispiace dover riconoscere che questi aspetti per me positivi sono in realtà “merito” del covid. Vorrei che – passata l’era covid –  si continuasse sulla linea del silenzio rispettoso, degli eventi garbati, dello scambio cortese  di idee interessanti, si tornasse insomma almeno in parte a quelle crociere eleganti e raffinate degli anni ’60/’70, quando gli uomini non andavano a cena in bermuda e calzando infradito, come qualche volta accade ora.

Luciana Grillo

Fonte: “L’Adigetto”

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